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Jammie Thomas chiama RIAA al test definitivo sul P2P?

16/10/2007
- A cura di
Archivio - La vittoria delle etichette discografiche contro la nuova "mamma del P2P" potrebbe essere davvero una vittoria di Pirro: la donna non vuol cedere alla pesante sentenza, e invece di pagare fior di dollari all'industria prova a metterla definitivamente gambe all'aria ricorrendo in appello. Tutti i dettagli sulla vicenda.

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Il pezzo che stai leggendo è stato pubblicato oltre un anno fa. AvvisoLa trattazione seguente è piuttosto datata. Sebbene questo non implichi automaticamente che quanto descritto abbia perso di validità, non è da escludere che la situazione si sia evoluta nel frattempo. Raccomandiamo quantomeno di proseguire la lettura contestualizzando il tutto nel periodo in cui è stato proposto.

Assieme all'album in digitale dei Radiohead è la notizia Rete sulla bocca di tutti in questo periodo: Jammie Thomas, donna statunitense di trent'anni originaria di Brainerd, Minnesota, single e madre di due ragazzi, ha affrontato RIAA e i discografici nell'ambito del caso giudiziario Virgin v. Thomas, il primo che sia mai finito davanti ad una giuria nella storia della crociata legale delle Grandi Sorelle del disco.

Accusata di aver messo in condivisione oltre 1400 brani musicali sulla rete Kazaa, Thomas è stata infine inchiodata dagli abili - e si presume ben pagati - legali delle major, che almeno in apparenza hanno dimostrato prove alla mano che quella condivisione effettivamente c'è stata per 24 dei file incriminati. Per l'orrendo "crimine" di cui è stata riconosciuta colpevole la donna si è vista rifilare una multa di 220.000 dollari sonanti, vale a dire 9.250 dollari a brano.

Troppe le tracce disseminate in rete dalla "pirata incallita", troppi gli indizi digitali riconducibili alla donna perché la giuria - riunitasi per la prima volta in un caso di condivisione di contenuti multimediali senza autorizzazione da parte degli aventi diritto - non si facesse convincere dalle ragioni dell'accusa. Ha giocato a favore dell'accusa lo pseudonimo tereastarr ad esempio, usato Thomas - esperta utente di Internet e PC - in più di un'occasione on-line oltre che su Kazaa.

Non solo ora la sfortunata signora del P2P - che ricorda per certi versi altri famosi protagonisti delle cronache giudiziarie di genere, vale a dire Patti Santangelo e i suoi figli battaglieri - dovrà pagare una multa fuori parametro, ma sarà costretta a provvedere anche alle spese legali, che da sole potrebbero raggiungere la cifra astronomica - per una donna sola con due ragazzi a carico - di 500.000 dollari.

Un destino pesante, materialmente difficile da gestire per una semplice impiegata come lei. Un destino che Jammie Thomas vuole disperatamente combattere, nonostante abbia puntato contro il cannone impazzito di una industria priva di qualsiasi dignità o senso della misura: la donna ha annunciato CNN la decisione di voler ricorrere in appello, un appello che secondo il suo avvocato potrebbe essere avvelenato più del dovuto per le major.

Jammie_Thomas_on_CNN.jpg

Il duo vuole infatti focalizzarsi su un dato a loro parere non preso sufficientemente in considerazione dalla giuria in primo grado, e cioè che i discografari amerikani non hanno mai fornito prove evidenti del fatto che ci sia stato un effettivo download di quei 24 file su Kazaa. L'unica cosa dimostrata dalle etichette è che dietro l'indirizzo IP della connessione Thomas è avvenuta una condivisione - con credenziali di accesso che la donna sostiene pubblicamente siano state rubate - ma non sono state mostrate prove evidenti su un effettivo download dei brani.

L'argomentazione, potenzialmente devastante per le strategie legali di RIAA, non è affatto nuova: già il caso Warner v. Cassin, rimandato un paio di volte e attualmente in attesa di udienza per il prossimo 16 di novembre, vuole mettere in luce la totale infondatezza delle pretese dei discografici, che non sarebbero in grado di dimostrare nient'altro oltre al fatto che gli investigatori al loro servizi hanno scaricato i brani incriminati. Ora è da stabilire l'effettiva validità della richiesta di verifica da parte di Jammie Thomas, fermo restando che qualora le dovesse andare male anche in appello di certo non significherebbe granché per l'invincibile fenomeno del Peer-to-Peer, impermeabile a leggi arcaiche e persecuzioni dementi e inefficaci.

È doveroso infine segnalare un'ultima nota riguardo le esose richieste di risarcimento monetario da parte dell'industria: come giustamente fa notare il sempre puntuale avvocato/blogger Guido Scorza, per quanto la sentenza abbia punito duramente il reato - o presunto tale, visto che il caso è ancora in corso - la misura di tale punizione appare quantomeno esagerata.

Per Scorza sostanzialmente Thomas è stata condannata "a lavorare per tutta la vita per pagare le major": "È giusto che lo Stato tuteli i titolari dei diritti d'autore - scrive l'avvocato - sanzionando le condotte di violazione ma è indispensabile che le sanzioni siano proporzionate all'effettivo corrispettivo dei soli diritti d'autore che si ottiene scorporando dal prezzo di un CD le lussuose confezioni fisiche e mediatiche (parlo di pubblicità e concerti da mille e una notte) con le quali le major si ostinano a mettere in circolazione i loro prodotti".

"Una cosa è la tutela del diritto d'autore - conclude l'esperto - come strumento di incentivo al progresso culturale e, una cosa diversa, è la tutela del profitto delle major... della plastica che queste usano per le loro confezioni, della pubblicità e di tutto il resto".

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